Fetonte o… della gioventú bruciata

Fetonte era figlio di Helios, il dio del Sole. Un giorno, nell’ambito di una lite tra fanciulli quale spesso capita tra i ragazzini delle medie, un compagno di classe dubitò della sua discendenza e, anche in virtú del detto latino mater semper certa est pater nonnunquam, a lui rivolse alate parole:
«Sciocco,» gli disse, «in tutto tu credi a tua madre
 e vai superbo d’un padre immaginario». (Ovidio, le Metamorfosi)  
Ah Caino, ah bastaso!” avrà detto il fanciullo, pur esprimendosi in greco antico o nella versione latina di Ovidio; né è difficile immaginare quali filastrocche gli intonassero davanti i compagni: “La mamma di Fetonte è visionaria, la mamma di Fetonte è visionaria…”.
Tornato a casa, egli si rivolse alla madre Climene, dicendole d’essersi taciuto solo per non causarle maggiore dolore. Nondimeno, grave era l’onta, imperdonabile l’accusa:
«E a tuo maggior dolore, madre mia, io che sono cosí impulsivo,
cosí fiero, m’imposi di tacere: non sopporto che qualcuno
abbia potuto insultarmi cosí, senza che potessi ribattere!
Ma tu, se è vero che discendo da stirpe celeste,
dammi prova di questi natali illustri e rivendicami al cielo».
All’epoca non c’erano gli smartphone e Climene avrebbe dovuto penare non poco per rintracciare il marito che, peraltro, era un pezzo grosso. Si curò, comunque, di rassicurare il figlio, alzando le braccia al cielo e giurando in tal guisa:
«Per questo splendido fulgore di raggi abbaglianti» disse,
«che ci vede e ci ascolta, io ti giuro, figliolo,
che tu sei nato da questo Sole che contempli e che regola
la vita in terra. Se ciò che dico è menzogna, mai piú mi consenta
di guardarlo e sia questa luce l’ultima per i miei occhi!
Del resto non ti sarà fatica trovare la casa paterna:
la terra in cui risiede confina con la nostra, là dove sorge.
Se questo hai in animo, va’ e chiedi a lui stesso».
Non c’era bisogno di declamare tali esametri due volte! Fetonte, baldanzoso e affamato di rivalsa, abbandonò l’Etiopia, attraversò l’India e tornò alla casa del Padre, piú nello stile di C’è posta per te che del Figliuol prodigo.

La casa di Helios era una figata assurda: tutta ricoperta d’oro e di rame, si ergeva su alte colonne ed era decorata con scene marine, campestri e astronomiche.
Quanto a Helios, poi, era avvolto in un manto di porpora, cinto dal caratteristico diadema nonché circondato dal Giorno, dal Mese, dall’Anno, dai Secoli, dalle Ore e dalle Stagioni.
«Perché sei venuto?» gli disse. «Cosa cerchi in questa rocca,
Fetonte, figliolo mio che mai potrei rinnegare?».
E quello: «O luce, che a tutto l’universo appartieni,
Febo, padre mio, se mi concedi d’usare questo nome
e se Clímene non cela una colpa sotto falsa effigie,
dammi testimonianza, genitore, che mi rassicuri
d’essere tuo figlio, e strappami questa incertezza dal cuore».
A queste parole il genitore depose i raggi
che gli sfolgoravano intorno al capo, l’invitò ad avvicinarsi
e abbracciandolo gli disse: «Non c’è ragione per negare
che tu sia mio e che il vero riferì Climene sulla tua nascita.
E perché tu non abbia dubbi, chiedimi quello che vuoi:
da me, da me l’avrai; e alla mia promessa sia testimone
quella misteriosa palude su cui giurano gli dei».
Non l’avesse mai detto! Come altri, troppi adolescenti avrebbero poi fatto nella storia, Fetonte gli chiese di guidare al posto suo, a dispetto dell’età ancor giovane e dell’insufficiente esperienza! Nel caso specifico, peraltro, il veicolo non era una modesta utilitaria ma nientemeno che il Carro del Sole, con il quale Helios trasportava per l’universo l’astro che dona la vita.
Il dio del Sole, come abbiamo visto, aveva giurato sulla palude dello Stige, la qual cosa lo vincolava per l’eternità. Tentò, nondimeno, di dissuadere il fanciullo, ricordandogli quanto sarebbe stata pericolosa l’iniziativa, foriera di rischi. Scuotendo la testa, gli assicurò che nemmeno Giove in persona avrebbe potuto guidarlo; la strada cominciava ripida, tanto che gli stessi cavalli faticavano a cominciarla; egli stesso, guardando dall’alto, provava sgomento e Teti temeva potesse cadere nel mare; c’era, poi, da andare contromano rispetto al moto degli astri, perché il cielo si muoveva vorticosamente, in mezzo a mostri e insidie varie:
“dovrai pure avventurarti tra le corna del Toro che hai di fronte,
contro l’arciere di Emonia, tra le fauci violente del Leone,
contro lo Scorpione che inarca in un gran cerchio le velenose
sue chele e il Cancro che in altra direzione le richiude.
Facile non ti sarà reggere cavalli
cosí focosi per le fiamme che hanno in petto
e spirano da bocca e froge: a stento obbediscono a me,
quando esplode il loro istinto e il collo si ribella alle briglie.
Attento dunque, che non sia io, figliolo, il colpevole d’un dono
cosí funesto e, finché siamo in tempo, muta il tuo proposito!”
Fetonte non si lasciò convincere. Ne andava del suo orgoglio, del suo amor proprio, chissà, forse anche dell’attenzione di qualche ragazza… Puntò i piedi e l’ebbe vinta.
“E allora il genitore, dopo avere indugiato tutto il possibile,
conduce il giovane al cocchio, di Vulcano dono sublime.
D’oro era l’asse, d’oro il timone, d’oro il cerchione
delle ruote e d’argento la serie dei raggi;
lungo i gioghi, topazi e gemme poste in fila
per il riflesso del Sole emanavano sfavillanti bagliori.(…)
Non c’era un garage da aprire col telecomando ma l’Aurora a dischiudere le porte del cielo, le Ore ad aggiogare i cavalli. Né, come tentava di farci credere il pur delizioso cartone di Pollon combinaguai, ci si poteva svegliare in ritardo e da guidare c’era soltanto un cavallo sornione …
Helios prese un magico unguento, dalla protezione solare adeguata, e cosparse il volto del figlio per proteggerlo dal calore eccessivo.
Giusto qualche raccomandazione finale:
 «Se almeno riesci a seguire i consigli di tuo padre,
evita la frusta, figliolo, delle briglie, piuttosto, fai uso.
Già tendono a correre: il difficile è frenare la loro foga.
E non scegliere la via che incrocia tutte le cinque zone:
c’è una pista che con ampia curva si snoda obliquamente
nello spazio limitato di tre zone, senza toccare
né il polo australe  né l’Orsa, agli Aquiloni legata;
seguila: vedrai con chiarezza i solchi delle ruote.
(…) Bada poi che sterzando troppo a destra le ruote non ti conducano
nelle spire del Serpente o a sinistra nei recessi dell’Altare:
tienti fra loro. Per tutto il resto m’affido alla Fortuna,
che ti aiuti e pensi a te, spero, meglio di quanto fare tu sappia!
Fetonte salí spavaldo sul cocchio, trainato da quattro cavalli impetuosi. Ecco la telecronaca, per come Ovidio ce l’ha tramandata, da leggere con la voce di Bruno Pizzul (oppure, ed è forse piú giusto, di un cronista di Formula 1):
“Non appena Teti, che non sa quale destino attenda il nipote,
l’apre, schiudendo a loro gli spazi del cielo immenso,
quelli si lanciano fuori, scalciando le zampe nell’aria
squarciano la cortina di nebbie e sollevandosi sulle ali
superano gli Euri che nascono nelle stesse regioni.
Ma leggero è il carico, non quello che i cavalli del Sole
conoscono, e il giogo manca del solito piglio;
cosí, come la chiglia delle navi senza la giusta zavorra
ondeggia e per eccessiva leggerezza sbanda sul mare,
il cocchio, privo del peso consueto, sobbalza nell’aria
con immani scossoni, quasi fosse vuoto del tutto.
Appena se ne accorgono, i quattro destrieri si scatenano,
lasciano la pista battuta e piú non corrono ordinati.
Lui si spaventa e non sa da che parte tirare le briglie in mano,
non sa dov’è la strada e, se anche lo sapesse, come imporsi a loro.
Per la prima volta allora ai raggi solari arse l’Orsa gelida
che invano, perché interdetto, tentò d’immergersi in mare;
e il Serpente, sospeso in prossimità dei ghiacci polari,
che prima intorpidito dal freddo non spaventava alcuno,
s’infiammò e a quel fuoco fu preso da una furia mai vista.
E anche tu, Boote, raccontano che fuggisti sconvolto,
benché fossi lento e impacciato dal tuo carro.
Quando poi dalla vetta del cielo l’infelice Fetonte
si volse a guardare in basso la terra lontana, cosí lontana,
impallidí,  le ginocchia tremaron di fulmineo sgomento 
e, pur fra tanta luce, un velo di tenebra gli calò sugli occhi.
Ora mai vorrebbe aver toccato i cavalli di suo padre,
ora si pente d’avere appreso i natali e vinto con le suppliche;
ora figlio di Mèrope vorrebbe che lo dicessero e intanto
è trascinato via, come dalle raffiche di Borea una nave,
che il pilota rinunci a governare  agli dei rimettendosi.
Che fare? Alle spalle s’è lasciato buona parte del cielo,
ma piú ve n’è davanti. Nella mente misura i due tratti:
ora scruta l’occidente che il destino gli vieta
di raggiungere, ora si volta a guardare l’oriente.
Incapace a decidere, resta di pietra, non lascia le redini
e non ha la forza di tirarle, i nomi stessi ignora dei cavalli.
In piú, dispersi nel cielo screziato, in ogni luogo vede
prodigi e, inorridito, fantasmi d’animali mostruosi.
V’è un punto dove lo Scorpione incurva le sue chele
in due archi e dalla coda alle branche, strette a forcipe,
stende le sue membra nello spazio di due costellazioni.
Quando il ragazzo lo vede che, asperso tutto di nero veleno,
minaccia di colpirlo con la punta dell’aculeo,
sconvolto dal gelo del terrore lascia andare le briglie;
e appena queste, allentandosi, sfiorano la loro groppa,
i cavalli smarriscono la strada e senza freno alcuno vagano
per l’aria di regioni ignote e, dove li spinge la foga,
lí in disordine rovinano, cozzano contro le stelle infisse
nella volta del cielo, trascinando il carro in zone inesplorate.
(…) Nei punti piú alti la terra è ghermita dal fuoco,
si screpola in fenditure e, seccandosi gli umori, inaridisce;
si sbiancano i pascoli, con tutte le fronde bruciano le piante
e le messi riarse danno esca alla propria rovina.
Di inezie mi dolgo: con le loro mura crollano città immense
e gli incendi riducono in cenere coi loro abitanti
intere regioni. Bruciano  i boschi coi monti,
bruciano l’Ato, il Tauro di Cilicia, il Tmolo, l’Eta
e l’Ida, un tempo zampillante di sorgenti e ora inaridito,
l’Elicona delle Muse e l’Emo, prima che vi regnasse Eagro;
bruciano l’Etna, fuoco su fuoco, in un rogo immenso,
i due gioghi del Parnaso, l’Èrice, il Cinto, l’Otri
e il Ròdope, finalmente sgombro di neve, il Dìndimo,
il Mimante, il Mìcale e il Citerone, destinato ai riti sacri.
Nemmeno i suoi ghiacci salvano la Scizia: il Caucaso brucia
con l’Ossa, il Pindo e l’Olimpo che entrambi li sovrasta,
le Alpi che si confondono col cielo e l’Appennino con le nubi.
E cosí, dovunque guardi, Fetonte vede
la terra in fiamme e piú non resiste a quell’immenso calore:
respira folate infuocate, che sembrano uscire dalla gola
d’una fornace ed avverte il suo cocchio farsi incandescente.
Non riesce piú a sopportare le ceneri e le faville
che si sprigionano, un fumo afoso tutto l’avvolge
e, immerso in quella caligine di pece, non sa piú dove sia
o dove vada, trascinato com’è in balia degli alati cavalli.
Fu allora, cosí dicono, che il popolo degli Etiopi divenne,
per l’afflusso del sangue a fior di pelle, nero di colore;
fu allora che la Libia, privata d’ogni umore, divenne
un deserto; fu allora che le ninfe, i capelli al vento, rimpiansero
fonti e laghi: invano la Beozia cerca la fonte Dirce,
Argo Amìmone, Èfire la vena di Pirene.
(…) Fugge atterrito il Nilo ai margini del mondo
e nasconde il capo dove ancora è celato; in polvere si spengono
le sue sette foci: sette alvei senza una goccia d’acqua.
Uguale sorte in Tracia prosciuga l’Ebro e lo Strìmone,
e in Occidente i fiumi Po, Rodano, Reno
e il Tevere, cui fu promesso il dominio del mondo.
In ogni luogo il suolo si spacca e attraverso gli squarci la luce
penetra nel Tartaro, atterrendo con Proserpina il re degli Inferi.
(…) tre volte Nettuno, torvo in volto, cercò di sollevare
dall’acqua le braccia e tre volte non resse al fuoco dell’aria.
Alla fine la madre Terra, circondata com’era dal mare,
fra quelle onde e le fonti consunte, che dov’era luogo
cercavano di rintanarsi nelle sue viscere oscure,
riarsa sollevò a fatica il volto sino al collo,
si portò una mano alla fronte e con un gran sussulto,
che fece tremare ogni cosa, si assestò un poco piú in basso
di dove è solita stare, e con voce roca disse:
«Se questo è deciso e l’ho meritato, o sommo fra gli dei,
perché ritardano i tuoi fulmini? Se di fuoco devo perire,
del fuoco tuo possa perire: piú lieve sarà la mia sventura.
Posso appena aprire la bocca per articolare verbo»
(la soffocava il fumo). «Guarda, guarda i miei capelli in fiamme
e quanta cenere negli occhi, quanta sul mio viso!
Questo il mio premio? cosí ricompensi la fertilità
e i miei servigi, dopo che sopporto le ferite infertemi
da aratri e rastrelli e per tutto l’anno m’affatico?
dopo che al bestiame procuro fronde, al genere umano alimenti
e frutti teneri, e a voi persino l’incenso?
Ma ammesso ch’io meriti questa fine, che colpa hanno le acque,
che colpa tuo fratello? perché il mare, che gli fu affidato in sorte,
sempre piú si contrae e sempre piú dal cielo si discosta?
E se non ti commuovi per tuo fratello o per me,
abbi almeno pietà del cielo che è tuo! Guardati intorno:
fumano entrambi i poli; e se il fuoco li intaccherà,
le vostre regge crolleranno. Atlante stesso s’affatica al limite
per sostenere sulle spalle l’asse celeste ormai incandescente.
Se scompare il mare, la terra e la reggia del cielo,
nel caos antico ci annulleremo. Salvalo dalle fiamme
quel poco che ancora resta: abbi a cuore l’universo!».
(…) Allora il padre onnipotente, chiamati a testimoni gli dei
(e per primo chi ha concesso il carro) che se non fosse intervenuto,
tutto si sarebbe fatalmente estinto, salì in cima alla rocca
da cui suole stendere le nubi sulla crosta terrestre,
da cui fa rimbombare i tuoni e scaglia in un guizzo le folgori.
Ma in quel momento non gli servirono nubi
per coprire la terra, né pioggia che cadesse dal cielo:
tuonò, e librato un fulmine alto sulla destra,
lo lanciò contro l’auriga, sbalzandolo dal cocchio
e dalla vita, e con la furia del fuoco il fuoco represse.
Atterriti s’impennano i cavalli e con un balzo sciolgono
il collo dal giogo, spezzano i finimenti e fuggono.
Qui cadono i morsi, piú in là l’asse divelto del timone,
da questa parte i raggi delle ruote fracassate e ciò che resta
del cocchio in frantumi è disseminato in ogni luogo.
Fetonte, con le fiamme che gli divorano i capelli di fuoco,
precipita vorticosamente su sé stesso e lascia nell’aria
una lunga scia, come a volte una stella che sembra
cadere, anche se in verità non cade, dal cielo sereno.
Lontano dalla patria, in un’altra parte del mondo,
l’accoglie l’immenso Eridano, che gli deterge il viso fumante.
Le Naiadi d’Occidente seppelliscono il corpo incenerito
dal fulmine a tre punte e sulla lapide incidono questi versi:
«Qui giace Fetonte, auriga del cocchio di suo padre
e, se non seppe guidarlo,  in una grande impresa pure egli cadde».
È abbastanza; le sorelle di Fetonte, anche dette Eliadi, si strussero dal dolore e si trasformarono in pioppi; Cicno, che del ragazzo era amico fraterno, si trasformò nell’uccello dal collo bianco e dal verso sgraziato, che
“ memore dei fulmini
scagliati  da Giove con crudeltà, diffida di lui e del cielo:
cerca gli stagni, i laghi aperti e, detestando il fuoco,
sceglie come dimora i fiumi, che delle fiamme sono l’opposto ”.

i brani di Ovidio tradotti erano caricati liberamente in rete; è stata apportata  qualche modifica curatoliana;

l’aggettivo “visionaria”, attribuito alla madre di Fetonte dai compagni di clase di questi, è stato usato, eccezionalmente per questo blog, nell’accezione forse piú comune

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