L’eco del post ‘Ovidio al posto di Plauto’ deve ancora cessare e già un nuovo stimolo appare all’orizzonte.
Galeotta una conferenza alla quale ho partecipato di recente, altrettanto interessante rispetto all’opera ovidiana sembra adesso quella di Apuleio, ʻLe Metamorfosi’, anche nota come ‘L’asino d’oro’.
Opera tra le piú scopiazzate nella storia della letteratura, ‘Le Metamorfosi’ di Apuleio è divisa in undici libri perché, sembra, dieci erano i giorni che preparavano all’iniziazione ai culti di Iside e uno era quello conclusivo (per l’antichità è un’eccezione, ché le opere venivano normalmente raccolte in ventiquattro, dodici, sei o quattro volumi).
Il riferimento a Pinocchio sarebbe ovvio, essendo la Fata Turchina una riproposizione della Dea per come si manifestò a Lucio diventato disgraziatamente asino ma innumerevoli sarebbero le suggestioni presenti in altre esperienze letterarie; è interessante notare la scelta dell’animale, perché l’asino (meglio, l’indomabile onagro suo cugino) era stimato come cavalcatura dei re ed acquisí accezione negativa solo in un secondo momento.
Due degli undici libri delle Metamorfosi ospitano, inoltre, la storia di Amore e Psiche, con tutte le peripezie che la fanciulla dovette passare per volere di Venere e con tutte le letture esoteriche che ne possono derivare.
Qui di seguito, l’invocazione di Lucio a Iside, testimonianza di come già gli antichi avessero intuito come le diverse divinità erano solo nomi diversi di un unico dio (rileggi qui e qui):
“O regina del cielo, o sia pure tu l’alma Cerere, l’antichissima madre
delle messi, che per la gioia d’aver ritrovata la figlia, offristi
all’uomo un cibo piú dolce che non quello bestiale delle ghiande e fai
piú bella con la tua presenza la terra di Eleusi; o anche la celeste
Venere che all’inizio del mondo desti la vita ad Amore e accoppiasti sessi
diversi propagando la specie umana con una discendenza ininterrotta,
onorata ora in Pafo, circondata dal mare; o la sorella di Febo, che
alleviando con dolci rimedi il dolore del parto, hai dato la vita a tante
generazioni ed ora sei venerata nei santuari di Efeso; o che tu sia
Proserpina, la dea che atterrisce con i suoi ululati notturni, che nel tuo
triplice aspetto plachi le inquiete ombre dei morti e chiudi le porte
dell’oltretomba e vaghi per i boschi sacri, venerata con riti diversi, tu
che con la tua virginea luce illumini tutte le città, che nutri con i tuoi
umidi raggi le sementi feconde, e nei tuoi giri solitari spandi il tuo
incerto chiarore, sotto qualsiasi nome, con qualsiasi rito, sotto
qualsiasi aspetto sia lecito invocarti, soccorrimi in queste mie terribili
sventure, sostienimi nella mia sorte infelice, concedimi un po’ di pace,
una tregua dopo tanti terribili eventi, che cessino gli affanni, che
cessino i pericoli. Liberami da quest’orrendo aspetto di quadrupede,
rendimi agli occhi dei miei cari, fammi tornare il Lucio che ero.
E se poi qualche divinità che ho offesa mi perseguita con una crudeltà
cosí accanita, mi sia almeno concesso di morire se non mi è lecito
vivere.”(…)
Qui, invece, l’apparizione della dea:
“quand’ecco che sulla superficie del mare
apparve una divina immagine, un volto degno d’esser venerato dagli stessi
dei. Poi la luminosa parvenza sorse a poco a poco con tutto il corpo fuori
dalle acque e a me parve di vederla, ferma, dinanzi a me.
Mi proverò a descrivervi il suo aspetto mirabile se la povertà della
lingua umana mi darà la possibilità di farlo o se quella stessa divinità
mi concederà il dono di un’efficace e facile eloquenza.
Anzitutto i capelli, folti e lunghi, appena ondulati, che mollemente le
cascavano sul collo divino. Una corona di fiori variopinti le cingeva in
alto la testa e proprio in mezzo alla fronte un disco piatto, a guisa di
specchio ma che rappresentava la luna, mandava candidi barbagli di luce.
Ai lati, a destra e a sinistra, lo stringevano le spire irte e guizzanti
di serpenti e, in alto, era sormontato da spighe di grano.
Indossava una tunica di bisso leggero, dal colore cangiante, che andava
dal bianco splendente al giallo del fiore di croco, al rosso acceso delle
rose, ma quello che soprattutto confondeva il mio sguardo era la
sopravveste, nerissima, dai cupi riflessi, che girandole intorno alla vita
le risaliva su per il fianco destro fino alla spalla sinistra e, di qui,
stretta da un nodo, le ricadeva sul davanti in un ampio drappeggio
ondeggiante, agli orli graziosamente guarnito di frange.
Quei lembi e tutto il tessuto erano disseminati di stelle scintillanti e
in mezzo ad esse una luna piena diffondeva la sua vivida luce: lungo tutta
la balza di questo magnifico manto, per quanto esso era ampio, correva
un’ininterrotta ghirlanda di fiori e di frutti d’ogni specie.
Gli attributi della dea erano poi i piú diversi: nella destra recava,
infatti, un sistro di bronzo la cui la mina sottile, piegata come una
cintola, era attraversata da alcune verghette che al triplice moto del
braccio producevano un suono argentino. Dalla mano sinistra invece,
pendeva un vasello d’oro a forma di barca dai manico ornato da un aspide
con la testa ritta e il collo rigonfio. Ai suoi piedi divini calzava
sandali intessuti con foglie di palma, il simbolo della vittoria.
Tale e così maestosa, spirante i profumi felici d’Arabia, si degnò di
parlarmi la dea.
Eccomi o Lucio, mossa alle tue preghiere, io la madre della natura, la
signora di tutti gli elementi, l’origine e il principio di tutte le età,
la piú grande di tutte le divinità, la regina dei morti, là prima dei
celesti, colei che in sé riassume l’immagine di tutti gli dei e di tutte
le dee, che col suo cenno governa le altezze luminose del cielo, i salubri
venti del mare, i desolati silenzi dell’oltretomba, la cui potenza, unica,
tutto il mondo onora sotto varie forme, con diversi riti e differenti
nomi.
Per questo i Frigi, i primi abitatori della terra, mi chiamano
Pessinunzia, Madre degli dei, gli Autoctoni Attici Minerva Cecropia, i
Ciprioti circondati dal mare Venere Pafia, i Cretesi arcieri famosi Diana
Dittinna, i Siculi trilingui Proserpina Stigia, gli antichi abitatori di
Eleusi Gerere Attica, altri Giunone, altri Bellona, altri Ecate, altri
ancora Ramnusia, ma i due popoli degli Etiopi, che il dio sole illumina
coi suoi raggi quando sorge e quando tramonta e gli Egizi, così grandi per
la loro antica sapienza, venerandomi con quelle cerimonie che a me si
addicono, mi chiamano con il mio vero nome, Iside regina”.