in Cina con fulgore 2: Hollywood sul fiume giallo

La Cina e i suoi rapporti con il mondo occidentale catturano nuovamente la nostra attenzione, soprattutto se questi rapporti passano attraverso Hollywood.

Domenica scorsa, il gruppo cinese Dalian Wanda, operante nel cinema e nell’immobiliare  già in possesso della catena di sale statunitensi AMC e di 6000 sale in tutto il mondo, ha lanciato il progetto di creare una nuova Hollywood, piú grande della precedente, denominata “Qingdao Oriental Movie Metropolis”.

Sarà operativa dal 2017 nella Cina centro-settentrionale ed è intenzionata a produrre trenta film stranieri e cento cinesi l’anno, diventando leader mondiale nel 2018; gli studi copriranno una superficie di diecimila metri quadri e saranno dotati di parchi a tema analoghi a quelli delle major americane.

Vale forse la pena di ricordare che Wang Jianlin, presidente della Wanda, già membro dell’Esercito Nazionale del Popolo, attuale consigliere del Partito Comunista, è stato nominato quest’anno come l’uomo piú ricco della Cina, con un patrimonio di quattordici milioni di dollari; non nuovo al pallino del cinema, ha dichiarato di avere un fondo annuale di cinque miliardi solo per le acquisizioni internazionali.

Proprio sull’evoluzione dei rapporti tra la terra di Confucio e l’industria mondiale della settima arte, con particolare riguardo a quella americana, sta scrivendo un libro la professoressa Ying Zhu, docente di Cultura dei Media a New York. L’ha intervistata Simone Pieranni del Manifesto, al quale l’accademica ha raccontato che il tentativo attuale è quello di spingere “al massimo il sogno cinese”, con campagne mirate a diffondere i principi calibrandoli sul target, dai bimbi delle elementari ai manager.  

Tuttavia, il cinema cinese, nel suo legarsi strettamente a Hollywood, ha come obiettivo prioritario quello di promuovere il loro “soft power”, riscattandolo dall’immagine che si può ricavare dalle pellicole fortemente incentrate sul regime, che dipingevano il Paese solo sotto l’aspetto dittatoriale. Negli ultimi anni, il cinema americano ha cominciato a proporre una visione diversa, che, ad esempio, mostra la Cina come una “terra promessa” e la cinematografica intellighenzia di Pechino è a caccia di sceneggiatori americani, anche con concorsi internazionali (la stessa DreamWorks ha comunicato di essere in procinto di collaborare con il China Film Group, per un film che si chiamerà ‘Codice Tibet’).

Se le produzioni americane sono benvenute a Pechino, altrettanto favorevolmente le società di distribuzione trattano le pellicole cinesi nelle sale: i film dagli occhi a mandorla in America sono piú diffusi di quelli di altri Paesi stranieri.

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