Giulio Cesare Vanini, morire da filosofi

Ci capitava di recente d’incontrare, nell’ambito delle peregrinazioni fatte in rete, messer Giulio Cesare Vanini. Incontro tra i piú gratificanti, Giulio Cesare Vanini si è posizionato con sicurezza ai primi posti delle nostre gerarchie, secondo, forse, soltanto a Giordano Bruno quanto a coerenza e amore per la Libertà.
Nel XVII secolo, come si sa, la teologia e la politica andavano di pari passo, in un contesto un cui l’una ratificava, avallava e corroborava l’altra.


Nelle sue opere (l’Amphitheatrum aeternae providentiae e i dialoghi De admirandis naturae arcanis), entrambe suggellate dall’imprimatur preventivo della censura, Vanini sembrava, ad un primo approccio, stilare una sorta d’apologia della divina provvidenza. Al contrario, sulla scorta di Machiavelli, Vanini partiva dalla convinzione che la religione altro non è se non un instrumentum regni d’eccezionale efficacia e che i suoi fondatori sono degli impostori; nell’Amphiteatrum, Vanini si faceva beffe delle prove dell’esistenza di Dio, criticava l’idea che la provvidenza governi il mondo, dimostrava la falsità della credenza nei miracoli e tracciava addirittura una storia dell’ateismo; nel De admirandis, proponeva un’interpretazione rigorosamente naturalistica dei fenomeni che, all’epoca, erano considerati manifestazioni del sovrannaturale.
Come si diceva, a quei tempi la teologia era tutt’uno con la politica, il re era tale “per diritto divino” e negare Dio costituiva, in pratica, lesa maestà. Né si riuscirebbe a sintetizzare, in questa sede, l’interminabile elenco di persone che hanno pagato con la vita la libertà e l’indipendenza del proprio pensiero, in quell’epoca come in molte altre.
Il coraggio, per fortuna, è sempre esistito e, a differenza di molti, che divulgavano le proprie idee soltanto in circoli selezionatissimi, alcuni riuscivano ad esprimerle in pubblico, combattendo il potere costituito.
Giulio Cesare Vanini fu esempio fulgido di questa seconda categoria, esempio d’audacia più unico che raro nella complessa e avventurosa storia della modernità. La sua divinità era la “Dea Audacia”, come lui la chiamava, ed in suo nome pubblicò le sue opere e fu testimone vero della necessità di tradurre la verità filosofica in impegno sociale.
Dal punto di vista teoretico, «Vanini demolisce il mito dell’antropocentrismo, scardina i principi del platonismo cristianizzato, fa scricchiolare i pilastri dell’aristotelismo concordistico, smantella la costruzione di un universo compatto, finito, armonizzato, avente al suo vertice Dio e la schiera delle intelligenze angeliche, stronca ogni forma di teleologismo, sfata il mito del primato dell’uomo nella scala degli esseri viventi, manda in frantumi i più consolidati principi dell’etica cristiana, smaschera le illusioni della magia e dell’astrologia» [Francesco Paolo Raimondi, Giulio Cesare Vanini nell’Europa del Seicento, Pisa – Roma, 2005].
Nondimeno, sviluppò una concezione cosmologica nella quale la natura è pienamente autonoma nella sua composizione materiale e nei suoi principi costitutivi di moto e di quiete. Quanto a Dio, Vanini escluse non solo l’atto creativo ma anche una qualsivoglia attività assistenziale, provvidenzialistica e finalistica. Nella sua autonomia il cosmo è eterno, non ha né inizio né fine, tutto è materia vivente e vivificatrice, senza gerarchie o gradi di realtà, e la vita è l’effetto casuale della generazione spontanea. L’uomo, rigorosamente radicato nel regno animale, è anch’esso una produzione casuale e spontanea della materia: nel suo passato è a quattro zampe e nella sua anima non v’è traccia di una impronta divina. Le intelligenze celesti o motrici sono dichiarate superflue e finanche derubricate, da ultimo, come insussistenti. Inferno e Paradiso cadono nella sfera del “fabuloso” ed in quella delle superstizioni senili. La Bibbia, di cui mai s’è rinvenuta la versione originale, è poco piú di un libro di favole, tal quali quelle di Esopo; allo stesso dominio appartengono i miracoli, le profezie, le divinazioni, gli oracoli, le apparizioni angeliche e divine: tutte sono falsità, finzioni, menzogne che tocca al filosofo smascherare. Anche Tommaso Campanella, altro grande filosofo di quell’epoca, dichiarava d’essere nato «a debellar tre mali estremi: tirannide, sofismi, ipocrisia».
Come scrisse Schopenhauer [Parerga e paralipomena], che considerò Vanini suo predecessore, fu certamente piú facile bruciare Vanini che riuscire a confutarlo; perciò, a seguito di un processo che fu piuttosto una congiura politica, gli fu strappata la lingua e lo si condannò a morte sul rogo, come «ateo e bestemmiatore del nome di Dio».
A Tolosa, al pubblico ufficiale, che gli chiedeva per l’ultima volta di ritrattare, il filosofo, già gravato di un infamante cartello sulla schiena e di una lunga serie di degradazioni, gridò:

«Non esiste né un Dio né il diavolo, perché se ci fosse un Dio gli chiederei di lanciare un fulmine sull’ingiusto ed iniquo Parlamento; se ci fosse un diavolo gli chiederei di inghiottirlo sotto terra; ma, poiché non esiste né l’uno né l’altro, non ne farò nulla!».

A Tolosa, all’aguzzino che lo accompagnò al patibolo disse, in italiano:

«Andiamo, andiamo allegramente a morire da filosofo».

Fonte delle informazioni su Vanini: https://gabriellagiudici.it/giulio-cesare-vanini-morire-allegramente-da-filosofi/

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